Brillante studente di storia arrivato dalla provincia nella Oslo degli anni Sessanta, tra i movimenti universitari antimilitaristi e la scoperta dei giacimenti di petrolio che faranno ricca la Norvegia, Armand V.
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intraprende, un po’ per vanità, un po’ per sfida, inseguendo una «vita nobile» e di prestigio sociale, una folgorante carriera diplomatica, coronata nei primi anni Duemila dalla nomina di ambasciatore a Londra. È allora che suo figlio, all’improvviso, lascia gli studi e si arruola nei corpi speciali, partendo per la guerra in Medio Oriente. Per quanto contrario all’intervento occidentale, Armand l’ha sostenuto con fermezza come voleva il suo ruolo, grazie a quello sdoppiamento tra io pubblico e io intimo che ha imparato a gestire in nome del successo. Ma ora si ritrova a fare i conti con la maschera che ha sempre portato, che lo ha reso un servitore impeccabile degli interessi del suo paese al prezzo di svuotarlo come persona, riducendolo a un cinico giocatore capace di «sacrificare» perfino il figlio. Forse è per questo vuoto annichilente, per l’amaro fallimento di un’intera generazione di idealisti sedotti e assimilati dal sistema, che il romanzo su Armand V. non può essere veramente scritto ed esiste solo nelle sue 99 note a piè di pagina, che nonostante tutto, anche senza il testo di sopra, non riescono a smettere di indagare e scavare in questa storia. Opera politica, esistenziale e metaletteraria sui limiti e le possibilità della scrittura e della condizione umana, Armand V. è una tappa dal fascino vertiginoso nella ricerca radicale di Dag Solstad sull’individuo, la società e la letteratura.
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