Non esiste in Italia una definizione normativa di diritto commerciale. Un tempo, nel vigore del codice di commercio del 1882 (ed anteriormente, di quello del 1865), esso comprendeva le materie di principale interesse per il mondo che oggi definiremmo imprenditoriale.
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Vi erano trattate la definizione di commerciante (oggi sostituita, seguendo l’insegnamento della moderna scienza economica, da quella, più lata, d’imprenditore, e particolarmente d’imprenditore commerciale); i principali contratti commerciali (che all’epoca avevano una disciplina speciale, diversa da quella civile, allorché ne fosse parte un commerciante), le società; la cambiale e l’assegno; il fallimento. Tutte materie che oggi sono regolate unitariamente dal codice civile e dalle principali leggi collegate, la cui disciplina costituisce ancora, per tradizione, oggetto dell’insegnamento universitario del diritto commerciale. Purtroppo la materia, specie negli ultimi decenni, in corrispondenza con l’evoluzione dell’economia, l’irrompere delle nuove tecnologie, la progressiva accresciuta importanza dell’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea e la tendenza del legislatore ad ispirarsi (se non ad imitare) le normative dei paesi a capitalismo più avanzato, appare sovrabbondante e complicata. Non solo gli studenti, ma anche gli esperti del diritto vorrebbero evitare che questo fenomeno, comune a tutti i principali ordinamenti moderni, ma acuito in Italia dal numero eccessivamente elevato di leggi che riguardano l’argomento, nonché dal loro rapido mutamento (spesso ancor prima che se ne capisca l’effettiva portata), confonda il quadro d’assieme, riducendo tutto ad una somma di fredde regole mnemoniche. In realtà esistono tre «anime», tre chiavi di lettura, del diritto commerciale.
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