Tutti gli amanti giurano che il loro amore è diverso da quello degli altri. Specie all’inizio, quando la risacca della vita non ha ancora intaccato il sentimento. Poi le cose cambiano, e le storie tendono a somigliarsi. Ma non questa.
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L’amore raccontato in queste pagine – tratto da una vicenda di cronaca nera – ha avuto un finale sorprendente, che solo la realtà e una sua misteriosa giustizia potevano immaginare. Del resto «il destino, quando si accanisce, mostra pure una certa fantasia». Dopo “Dove non mi hai portata”, Maria Grazia Calandrone indaga le vite dei protagonisti di un fatto realmente accaduto, con sguardo da investigatrice e sensibilità da poetessa. E ci restituisce una vicenda in cui i chiaroscuri sono così tanti e intrecciati da impedirci una lettura unica. Come in tutte le storie d’amore. «“Magnifico e tremendo stava l’amore” rielabora un caso di cronaca nera. Il 27 gennaio 2004, dopo circa vent’anni di violenza subita, Luciana uccide con dodici coltellate l’ex marito Domenico e, insieme al nuovo compagno, ne getta il corpo nel fiume Tevere. Il 24 giugno 1965 mia madre Lucia, dopo anni di violenza subita da parte del marito, getta sé stessa nel fiume Tevere, insieme al suo nuovo compagno, mio padre. Perché in quegli anni non esiste la legge sul divorzio. Il motivo della mia ossessione è fin troppo evidente. Ma la vicenda giudiziaria di Luciana si conclude con un provvedimento destinato a fare giurisprudenza. Mi è parso allora utile, anzi necessario, rintracciare negli atti processuali le motivazioni umane e legali di una sentenza tanto d’avanguardia. L’analisi della storia e dei suoi esiti ha finito per generare un libro che ha sorpreso per prima chi l’ha scritto, essendo diventata un’opera scorretta, che non assume esclusivamente il punto di vista della vittima, si chiede anzi chi dei due sia la vittima, quale patto leghi i protagonisti e in quale oscurità delle persone quel patto abbia radicato. Chi scrive, insomma, ha cercato di comprendere profondamente le ragioni della violenza. E forse, chissà, ha lavorato proprio per emanciparsi da uno sguardo semplice sulla violenza. Non c’è dunque condanna, ma esposizione, quando possibile poetica, di quel magnifico e tremendo amore» (Maria Grazia Calandrone).