All'età di nove anni, Edith Wharton contrasse la febbre tifoidea e rimase confinata nel suo letto per settimane. La sua preghiera era: datemi dei libri da leggere. Fu cosí che la madre le diede una storia di fantasmi.
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A una bambina poco dotata d'immaginazione una storia del genere poteva fare poca o nessuna impressione, ma sulla piccola Edith ebbe un effetto dirompente: da quel momento si ritrovò a vivere in uno stato di terrore costante, con un senso di minaccia che accompagnava ogni suo passo, incapace di stare al buio, angosciata dalla solitudine. Dovette arrivare ai trent'anni perché, da donna pragmatica qual era diventata, trovasse l'unico modo efficace per gestire, da scrittrice, le proprie paure: diventare maestra nel genere letterario di quelle storie di spettri che tanto a lungo avevano infestato le sue notti. «Se il racconto vi manda un brivido gelato giú per la spina dorsale, ha fatto il suo dovere, e l'ha fatto bene» scriveva. Cosí Edith scrisse le sue storie del brivido, che apparvero in antologie accanto a Edgar Allan Poe e Henry James, in una produzione parallela ai suoi romanzi per tutta la vita: piú di ottantacinque, e molte avevano per protagoniste presenze spettrali. La raccolta Fantasmi fu concepita nella sua forma attuale dalla stessa Wharton prima di morire ma, pubblicata postuma nel 1937, finí ingiustamente dimenticata. In questi piccoli capolavori ritrovati, sottilmente inquietanti, ora presentati nella nuova traduzione di Tiziana Lo Porto, si possono riconoscere tutti i temi cari alla sua letteratura: la crudeltà di certi destini femminili, la costrizione all'interno di matrimoni claustrofobici, lo sradicamento dal paese natio, la prepotenza delle convenzioni sociali. Avvolti nell'abito sontuoso che tanto bene le conosciamo: la prosa nitida e affilata che sa illuminare i territori nascosti della realtà quanto, insospettabilmente, quelli del soprannaturale.